04/07/2019   Il volo del colibrì






Abbiamo scovato, seminascosto nei Social network, questo breve mini-racconto di Mario de Benedictis.

 

Mario de Benedictis, è un professore di scuola, che ha anche un passato ed un presente nella marcia: è stato allenatore del fratello Giovanni de Benedictis, nella seconda parte della carriera della medaglia di bronzo di Barcelona 1992, mentre oggi, proprio assieme al fratello, allena Giorgio Rubino e assieme a Alba Milana allena Eleonora Dominici.

 

Ma oggi vogliamo proporre, a chi avrà l'interesse e l'amabilità di leggerlo, questo simpatico raccontino, ovviamente solo in Italiano, che rappresenta la sua "vision" della marcia assieme ad alcuni suoi ricordi.

 
 
 

 

 

Di tanto in tanto ripropongo questa mia divagazione sul tema della Marcia. Sarà l'età. Perdonatemi, se potete.

 

La marcia ed il sorriso

 

Judex damnatus ubi nocens absolvitur. 
L’assoluzione del colpevole condanna il giudice.  
(Publilio Siro, Sentenze) 

 

Nove anni e le frequenze alari di un colibrì. Le sue ali sono due gambette trasparenti; eterea è tutta la sua figura. Soffici capelli crespi e lunghi, su meno (molto meno) di trenta chili di bimba vivacissima e tenace. Un frullare di passettini che è un fremito. Un palpito. La bimba corre. È il moto perpetuo.

 

“Posso fare la gara di marcia domenica?” mi dice l’altro giorno. E già, perché per la categoria esordienti, domenica prossima, non ci sono gare di corsa. Solo il locale Trofeo Regionale di marcia. La faccenda mi rende nervoso. L’idea è invero partita da altri (si può scegliere la marcia a nove anni?). Provo allora a sentire direttamente la bimba che mi risponde con un sorriso disarmante; sorride, non sta nella pelle e balla la rumba su nervosissimi piedini rullanti. Ma cosa le salta in testa? Beata puerile incoscienza; ecco cos’è la marcia atletica: un atto di formidabile puerile incoscienza.

 

Ma di cosa dovrebbe avere coscienza una bimba di nove anni? Delle lagrime di mio fratello (e mie) in quel crudele giorno di agosto del ’95 a Goteborg? Di quelle di torme di messicani di ogni epoca buttati fuori dal gioco anch’essi, leggeri nell’incedere come nel rispettare il regolamento? O di quelle recenti di un Deakes che a Osaka (e non solo lì) stava su per scommessa? (Attenzione: la scommessa di Deakes è quella vincente delle molte medaglie di Robert il polacco).

 

La bimba, per motivi anagrafici, non può ricordare Goteborg ’95. Credo ignori pure dove sia il Messico. Per la bimba colibrì anche Deakes è un carneade qualsiasi. Per lei c’è solo Lanciano, il suo esordio, la sua olimpiade.

 

E allora torno con la memoria ai miei inizi di marciatore, nel ’77, quando mio fratello ancora correva (nove anni pure lui allora, come la bimba; un ricorso storico?); quando la marcia era il mito Visini e Bautista un marziano sgraziato e veloce che bestemmiava nel Tempio. Prima di ogni gara anch’io, come la bimba colibrì, dormivo poco e passavo il tempo a fare tirate ancheggiando come un matto dentro al cortile di casa. Prima di ogni gara anch’io sognavo qualcosa d’indistinto e però soave; la marcia ti cattura perché reca in sé, come una duplice condanna, il crisma dell’impresa epica e la solitudine dei forti.

 

E marcia sia, mi dico, non senza timore. E marcia sia, le dico, con sincera emozione. 

 

Arriva la gara. La bimba si scalda insieme ad un nugolo pigolante di giovanissimi campioncini della locale e blasonata società organizzatrice. Qualcuno nel gruppetto chiassoso la nota e le chiede da quanto tempo marcia. “Da adesso” fa lei col solito sorriso. Ed io, poco prima della partenza, mi trovo un po’ goffo e imbarazzato nel tentativo di spiegarle l’ineffabile, l’”abc” che non esiste ma che, in circostanze simili, deve essere detto. L’attesa per lo sparo dello starter, poi, è uno stillicidio: le bimbe aspettano calme ai duecento metri – dovrebbero fare i mille -, ma poi qualcuno ci ripensa (“i mille non esistono per gli esordienti! Tutti all’arrivo: si fanno i milleduecento!”). E allora tutte di corsa a tagliare il campo in diagonale per raggiungere la nuova partenza.

 

La gara inizia e mi dà subito strane emozioni. Sentimenti antichi, ma non distanti. Qualcuno marcia, qualcun altro corre palesemente per qualche metro; i bimbi non se ne hanno a male. Il colibrì vola, ad anche bloccate (maledetto me e il mio “abc” prima della partenza!), ma il suo gesto non mi dispiace, anzi. La sostengo come posso, con voce calma e stentorea. Cerco conforto nella videocamera e nei numeri: 28 kg di peso per 1,36 m di altezza; 100m percorsi (i secondi 100) in 39”, in 138 passi per 72 cm di ampiezza... ma che diamine sto facendo? Massacro la poesia misurandola, come Prichards, il professore emerito de “L’attimo fuggente”!

 

La gara è finita da un pezzo, ma la bimba colibrì continua a marciare dietro bambini che corrono. E lo fa ridendo di gusto. Forse della marcia ha compreso tutto ciò che c’è da capire. Forse la marcia comincia e finisce lì.

 

 

Mario de Benedictis